domenica, Aprile 28, 2024

Dégradé di Tarzan e Arab Abunasser – Middle East Now! 2016

Presentato a Cannes 2015 nella Settimana della Critica, primo lungometraggio scritto e diretto dai gemelli palestinesi Tarzan e Arab Abunasser, Dégradé è il ritorno al cinema di quel Paese dopo una lunga assenza di 30 anni.
Il set scelto per la storia è volutamente scialbo e ordinario, un piccolo salone di bellezza nella Striscia di Gaza affollato di donne dall’aria mesta, nevrotica o solo annoiata, comunque non felici. Un piccolo campionario femminile che non comunica, solo aspetta il proprio turno che sembra non debba mai arrivare, e si capirà ben presto perché.

Una giovane futura sposa (Dina Shuhaiber) e una matura bruna insofferente, in lotta con i segni dell’età (Hiam Abbass), tutta protesa verso un incontro amoroso che non potrà avvenire, sono già nelle cure della proprietaria, immigrata russa (Victoria Balitska). Donna dai modi bruschi e convinta che a Gaza non si viva peggio che in Russia, si occupa personalmente della capigliatura della ragazza, mentre la depilazione dell’altra è affidata, con esito intermittente, all’assistente (Maisa Abd Elhadi). Quest’ultima non fa che piangere, ha problemi sentimentali in corso con il suo ragazzo e interrompe continuamente il lavoro per correre al piano di sopra per parlargli al cellulare, scatenando le giuste ire della cliente, già di suo abbastanza isterica.

Armato di tutto punto e interpretato da uno dei registi, Tarzan, l’amato se ne sta appostato dall’altra parte della strada e fa la guardia ad una leonessa rubata dall’unico zoo di Gaza, animale che le milizie di Hamas intendono a tutti i costi recuperare, anche se devono scatenare un autentico conflitto a fuoco in puro stile bellico con la banda di ladri. Come e perché sia stata rubata una leonessa tenuta al guinzaglio nella piazzetta davanti alla porta della parrucchiera è uno dei particolari del film che s’incagliano nella qualità piuttosto criptica di tutta la narrazione.
Fatto sta che la cosa si rivela una buona miccia per uno scontro che in certe zone del mondo, si sa, cerca solo un pretesto.
Mentre fuori il clima si surriscalda fino ad esplodere in piena regola, nel salone il caldo infernale è dato dalla caduta di corrente che non fa funzionare più i ventilatori.

E’ una giornata torrida, le donne sudano, si spazientiscono, il loro chiacchiericcio si mischia al vocìo di un televisore, ben presto spento perché non se ne può più, e alle canzoni melense trasmesse da un transistor. Quello che accade oltre la porta dai vetri polverosi le bloccherà  fino a sera in un assedio soffocante e claustrofobico. Le ore passano, i nervi si sfilacciano, i caratteri si scontrano e si svelano. C’è la donna ossessionata dal sesso e tossicodipendente (Manal Awad), la religiosa (Mirna Sakhla) completamente velata (e non si capisce perchè stia dal parrucchiere) che, in piena hijab, ad un certo punto dà il via alla preghiera rituale “Allahu akbar!” ma nessuno la segue, la puerpera di nove mesi a cui si scatenano le contrazioni quando meno avrebbero dovuto farlo, vista la difficoltà di uscire di là, e queste sono solo alcune delle simil-baruffe chiozzotte di una giornata che sembra non finire mai.

degradè-nasser

Finalmente, in un crescendo sempre più accelerato, fra litigi, urla, lamenti e spari, si arriverà al finale in cui tutto si confonderà nel buio più totale. Un altoparlante che gracchia il comunicato ufficiale, “il pericolo è finito”, riporta ordine e silenzio. Un guerrigliero ferito è scaraventato dentro il salone, auto con le sirene spiegate si allontanano, getti d’acqua spengono i focolai. Il testone della leonessa catturata guarda perplesso in macchina senza capire nulla.

L’intento polemico si ammanta di parodia in Dégradé, la denuncia è nella rappresentazione del degrado di quella che dovrebbe essere la lotta per la libertà a Gaza e diventa invece una sciocca battaglia fra guardie e ladri per la cattura di una leonessa dello zoo. Il dégradé , ultimo grido in fatto di hairstyle consistente in una tecnica di schiaritura per ottenere riflessi che ravvivano la tonalità piatta del colore dei capelli, diventa così un modo eccentrico per parlare di politica.

La convivenza su piani paralleli dei due scenari, maschile e femminile, così diversi e così costantemente intrecciati, è sufficientemente straniante, dà un taglio personale alla storia, sviluppa una certa curiosa attenzione agli snodi narrativi, ma alla fine la sensazione è che l’obiettivo primario, stimolare il dialogo politico in Palestina, prenda il sopravvento su tutto. La ricerca stilistica assume così un ruolo secondario e la messa in scena, alquanto caotica, rende laborioso e defatigante il tentativo di decrittare tutti i particolari, cercando un senso univoco e chiaro della storia.
Forse non sono ancora maturi i tempi auspicati nel lontano 1988 dal regista Jibnil Awad nel corso di una tavola rotonda promossa dalla rivista “al-Alam”: “Senza dubbio il cinema palestinese, soprattutto a partire dagli inizi degli anni Settanta, ha svolto una funzione molto importante ed ha raggiunto un prestigio internazionale non indifferente. Tuttavia esso deve ancora giungere ad un livello sufficientemente alto di maturità linguistica ed è ancora prigioniero dello stile proprio dell’argomentazione politica. La realtà palestinese è molto ricca e complessa ed il cinema, rivolgendosi ad essa, deve essere in grado di coglierne i diversi aspetti e di ricavarne trame ed argomenti in cui l’elemento estetico si sposi con la riflessione propriamente politica. Il cinema deve impegnarsi affinché al popolo palestinese siano restituiti i diritti perduti e pretendere di allinearsi ad un più alto livello espressivo.” (cit. da Il cinema palestinese di Andrea Morini, Erfan Rashid, Anna Di Martino e Adriano Aprà in “Il cinema dei Paesi Arabi“
, Marsilio, 1993).

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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